a D.D., al suo maglione e ai suoi capelli ancora nel vento
di Pippo Pappalardo

Trent’anni fa moriva Roland Barthes, semiologo fra i più importanti del secolo scorso, il quale introdusse un tipo di analisi linguistica che non riconduceva l’opera direttamente al suo senso ma al modo in cui questo era stato costruito.
Poco prima della morte (perì nel tentativo di salvare un cagnolino da un incidente stradale), consegnò alle stampe una nota - la chiamò proprio così - sulla fotografia che rispetto alla sua produzione è ritenuta, ancora oggi, tra il suoi testi più penetranti.
Il libro, celebre fra i fotografi, è “La camera chiara”, in Italia edito da Einaudi, considerato un contributo critico assai importante perché, a differenza dei suoi precedenti saggi, è caratterizzato da un’appassionata ricerca autobiografica nel tentativo di individuare un codice (meglio ancora un noema) per la fotografia.
Lo studioso francese, infatti, allontanandosi dalla necessità di
classificare la fotografia in maniera empirica o retorica o estetica, si
attiene ai dati oggettivi sperimentabili solo nella realtà fotografica e
non mutuabili da altre discipline dei “segni”.
Il lettore rimane avvertito che il tentativo di inquadrare la materia
gli sfugge continuamente: non riesce ad uno strutturalista del suo
livello l’individuazione dello schema entro cui relegare il fenomeno
fotografia.
Allora gli spiega perché sia necessario fondare la ricerca sul dato
emotivo e, conseguentemente, esaminare questo dato rispetto
all’operator (il fotografo), allo spectator (colui che vede la
fotografia) ed allo spectrum (la fotografia).
Le scoperte, però, non lo soddisfano; al più, si accorge che ciò che
individua è studium (l’interesse provato per il referente fotografico)
che gli consente solo una facilità di lettura, un addestramento per
leggere le tante fotografie, oppure è puntum che come una freccia, che
nessuno ha previsto, provenendo dalla fotografia, viene ad infrangere
lo studium.
E’ necessario, quindi, capire il rapporto tra la fotografia ed il tempo
vissuto, individuare il senso della Storia come esperienza di
separazione, passare attraverso gli elementi referenziali della
fotografia al riconoscimento ed all’acquisizione consapevole di questa
storia, iniziare quel percorso labirintico in cui non è più importante
uscire quanto capire chi è la nostra Arianna; poi, afferrato il filo
che ci lega alla fotografia, decifrare la sua essenza, comprendere con
onesto stupore la sua visibilità e dire, infine, con la fotografia, che
quel tempo è stato.
“La fotografia diventa per me un medium bizzarro, una nuova forma di
allucinazione: falsa a livello della percezione, vera a livello del
tempo. Un’allucinazione in un certo senso temperata, modesta, divisa –
da una parte non è qui, dall’altra, però, ciò è, ed effettivamente è
stato --. Immagine folle velata di reale”.
Ed il risultato di questa ricerca, sincera e dolorosa, lo individua fra
le fotografie della madre, anzi volutamente solo su una di queste,
utilizzando emozioni ed esperienze nel tentativo di isolare lo
specifico “eidòn” della fotografia.
Indubbiamente Barthes con quest’opera testimonia un’adesione mai
dogmatica alle categorie strutturaliste e semiotiche ma, pur costatando
la difficoltà di “definire” la fotografia, conferma l’attrazione da
questa esercitata nel mondo del “racconto” e, quindi, dei “segni”.
Precedentemente aveva, invece, rilevato la “funzione catartica”
esercitata dalle immagini fotografiche: “bisognerebbe forse adottare la
vecchia teoria della purificazione; in certe condizioni, infatti, le
fotografie possono essere oggetti catartici, oggetti cioè che
rappresentano una fatalità umana, e che danno a questa fatalità una
specie di scossa di coscienza che libera l’uomo” (Il Diaframma
–Fotografia, giugno 1978, pag . 36).
Altre cose ancora, assai rilevanti, si potranno acquisire dalla
rilettura di questo libro per tanti aspetti assai bello ma,
particolarmente, per le espresse, e le implicite, considerazioni sulla
morte che la fotografia ci rimanda.
E vorrei ritornare sul “concetto di storia come separazione dal nostro
vissuto” utilizzato da Barthes per spiegare il quid che lo allontanava
e lo univa alle fotografie.
Un ritorno, peraltro, opportuno perché alcuni anni addietro il mio
amato Giacomelli, in contrasto con lo scrittore francese, affermava
come la fotografia facesse rivivere la storia, riempiendone la memoria,
dando significato alla vita: “anch’io ho scelto una foto di mia madre
ma non di quando si recava all’ospizio (cioè di quando non si è ancora
nati, di quando insomma, non si ha memoria n.d.r.). Io voglio
ricordarla com’era negli ultimi anni poiché da quando è nata è stata
sempre così, né sono mai stato bambino. E’ passato del tempo? Non lo so
e quindi mi vedo così sempre uguale. Per questo ho scelto la foto che
io volevo ricordare; la madre che io volevo ricordare è quella che mi
sembra avere avuto sempre vicino” (Guarda, M.Giacomelli, ed. Matascì,
1994 pagg. 154 e segg.).
E’ interessante notare come Giacomelli, che pur considerava importante
il saggio di Barthes, si allontana da questi proprio nel momento della
scelta intima e personale adottata dal semiologo. Sembra di avvertire
nella sua non condivisione un sospetto sulla qualità del rapporto con
la madre vissuto da Barthes: invero nel francese c’è il desiderio di
ricostruirlo fantasmaticamente e trovare, quindi, nella fotografia il
supporto del “così è stato”; nel fotografo di Senigallia c’è il
ritratto vitale di chi ha visto, vissuto e rappresentato proprio il
rapporto filiale, e con l’essenzialità del poeta, propone semplicemente
“mia madre”.
Non per nulla Giacomelli ritrae la madre e ne fa vedere la fotografia
laddove Barthes si rifiuta di mostrare la madre bambina nel giardino,
sostenendo che quella foto esiste soltanto per lui mentre per gli altri
non sarebbe che studium senza riconoscimento di alcuna ferita.
Personalmente rinvengo nell’episodio una dimostrazione della differenza
che passa fra un poeta e un saggista per quanto superlativo e disposto
a compromettersi in prima persona.
Chiudevo così, esattamente dieci anni fa, questo mio ricordo della
“Camera Chiara”, ma oggi vi ritorno con piacere nuovo perché con
disarmante semplicità quanto formidabile penetrazione una nostra amica,
muovendo da altri lidi, aggiunge un’argomentata e personale novità. Ma
di questo a suo giusto momento e luogo.
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