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Marzo 1980/2010: Roland Barthes e “la camera chiara" PDF Stampa E-mail

a D.D., al suo maglione e ai suoi capelli ancora nel vento

di Pippo Pappalardo

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Trent’anni fa moriva Roland Barthes, semiologo fra i più importanti del secolo scorso, il quale introdusse un tipo di analisi linguistica che non riconduceva l’opera direttamente al suo senso ma al modo in cui questo era stato costruito.
Poco prima della morte (perì nel tentativo di salvare un cagnolino da un incidente stradale), consegnò alle stampe una nota - la chiamò proprio così - sulla fotografia che rispetto alla sua produzione è ritenuta, ancora oggi, tra il suoi testi più penetranti.
Il libro, celebre fra i fotografi, è “La camera chiara”, in Italia edito da Einaudi, considerato un contributo critico assai importante perché, a differenza dei suoi precedenti saggi, è caratterizzato da un’appassionata ricerca autobiografica nel tentativo di individuare un codice (meglio ancora un noema) per la fotografia.

Lo studioso francese, infatti, allontanandosi dalla necessità di classificare la fotografia in maniera empirica o retorica o estetica, si attiene ai dati oggettivi sperimentabili solo nella realtà fotografica e non mutuabili da altre discipline dei “segni”.
Il lettore rimane avvertito che il tentativo di inquadrare la materia gli sfugge continuamente: non riesce ad uno strutturalista del suo livello l’individuazione dello schema entro cui relegare il fenomeno fotografia. 

Allora gli spiega perché sia necessario fondare la ricerca sul dato emotivo e, conseguentemente, esaminare questo dato rispetto all’operator (il fotografo), allo spectator (colui che vede la fotografia) ed allo spectrum (la fotografia).
Le scoperte, però, non lo soddisfano; al più, si accorge che ciò che individua è studium (l’interesse provato per il referente fotografico) che gli consente solo una facilità di lettura, un addestramento per leggere le tante fotografie, oppure è puntum che come una freccia, che nessuno ha previsto, provenendo dalla fotografia, viene ad infrangere lo studium.
E’ necessario, quindi, capire il rapporto tra la fotografia ed il tempo vissuto, individuare il senso della Storia come esperienza di separazione, passare attraverso gli elementi referenziali della fotografia al riconoscimento ed all’acquisizione consapevole di questa storia, iniziare quel percorso labirintico in cui non è più importante uscire quanto capire chi è la nostra Arianna; poi, afferrato il filo che ci lega alla fotografia, decifrare la sua essenza, comprendere con onesto stupore la sua visibilità e dire, infine, con la fotografia, che quel tempo è stato.
“La fotografia diventa per me un medium bizzarro, una nuova forma di allucinazione: falsa a livello della percezione, vera a livello del tempo. Un’allucinazione in un certo senso temperata, modesta, divisa – da una parte non è qui, dall’altra, però, ciò è, ed effettivamente è stato --. Immagine folle velata di reale”.
Ed il risultato di questa ricerca, sincera e dolorosa, lo individua fra le fotografie della madre, anzi volutamente solo su una di queste, utilizzando  emozioni ed esperienze nel tentativo di isolare lo specifico “eidòn” della fotografia.
Indubbiamente Barthes con quest’opera testimonia un’adesione mai dogmatica alle categorie strutturaliste e semiotiche ma, pur costatando la difficoltà di “definire” la fotografia, conferma l’attrazione da questa esercitata nel mondo del “racconto” e, quindi, dei “segni”.
Precedentemente aveva, invece, rilevato la “funzione catartica” esercitata dalle immagini fotografiche: “bisognerebbe forse adottare la vecchia teoria della purificazione; in certe condizioni, infatti, le fotografie possono essere oggetti catartici, oggetti cioè che rappresentano una fatalità umana, e che danno a questa fatalità una specie di scossa di coscienza che libera l’uomo” (Il Diaframma –Fotografia, giugno 1978, pag . 36).
Altre cose ancora, assai rilevanti, si potranno acquisire dalla rilettura di questo libro per tanti aspetti assai bello ma, particolarmente, per le espresse, e le implicite, considerazioni sulla morte che la fotografia ci rimanda.
E vorrei ritornare sul “concetto di storia come separazione dal nostro vissuto” utilizzato da Barthes per spiegare il quid che lo allontanava e lo univa alle fotografie.
Un ritorno, peraltro, opportuno perché alcuni anni addietro il mio amato Giacomelli, in contrasto con lo scrittore francese, affermava come la fotografia facesse rivivere la storia, riempiendone la memoria, dando significato alla vita: “anch’io ho scelto una foto di mia madre ma non di quando si recava all’ospizio (cioè di quando non si è ancora nati, di quando insomma, non si ha memoria n.d.r.). Io voglio ricordarla com’era negli ultimi anni poiché da quando è nata è stata sempre così, né sono mai stato bambino. E’ passato del tempo? Non lo so e quindi mi vedo così sempre uguale. Per questo ho scelto la foto che io volevo ricordare; la madre che io volevo ricordare è quella che mi sembra avere avuto sempre vicino” (Guarda, M.Giacomelli, ed. Matascì, 1994 pagg. 154 e segg.).
E’ interessante notare come Giacomelli, che pur considerava importante il saggio di Barthes, si allontana da questi proprio nel momento della scelta intima e personale adottata dal semiologo. Sembra di avvertire nella sua non condivisione un sospetto sulla qualità del rapporto con la madre vissuto da Barthes: invero nel francese c’è il desiderio di ricostruirlo fantasmaticamente e trovare, quindi, nella fotografia il supporto del “così è stato”; nel fotografo di Senigallia c’è il ritratto vitale di chi ha visto, vissuto e rappresentato proprio il rapporto filiale, e con l’essenzialità del poeta, propone semplicemente “mia madre”.
Non per nulla Giacomelli ritrae la madre e ne fa vedere la fotografia laddove Barthes si rifiuta di mostrare la madre bambina nel giardino, sostenendo che quella foto esiste soltanto per lui mentre per gli altri non sarebbe che studium senza riconoscimento di alcuna ferita.
Personalmente rinvengo nell’episodio una dimostrazione della differenza che passa fra un poeta e un saggista per quanto superlativo e disposto a compromettersi in prima persona.
Chiudevo così, esattamente dieci anni fa, questo mio ricordo della “Camera Chiara”, ma oggi vi ritorno con piacere nuovo perché con disarmante semplicità quanto formidabile penetrazione una nostra amica, muovendo da altri lidi, aggiunge un’argomentata e personale novità. Ma di questo a suo giusto momento e luogo.

 
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