Fulvio Roiter, Venezia, Irene, ascoltare le emozioni, rappresentarle.
Negli appuntamenti trascorsi, abbiamo provato, insieme, a definire ciò che per noi fotografi è “cultura”; anche perché queste serate in giallo sono specificamente progettate, almeno nelle intenzioni, con uno scopo culturale. Invero lo sarebbero - e lo sono - tutte, ma queste pretendono di esserlo di più.
La prima definizione di cultura che abbiamo dato si rifaceva a una vecchia esperienza: “Ciò che rimane di tutto ciò che abbiamo dimenticato”.
La seconda si spingeva sull’etimo dell’espressione “cultura” e suonava come “quel che vogliamo coltivare, curare, perché ci riguarda”.
La terza, e la proponiamo stasera, tratterà di un altro aspetto di far cultura ovvero della “necessità di ascoltare”.
Proprio così, ASCOLTARE; che è più di udire, o di sentire: perché scavalca la ricezione fisica di un suono, la percezione di un segno, l’intuizione di un bisogno e si fa attenzione dell’altro, della sua immagine e delle immagini che sta creando.
Ascoltando Sergi, Licciardello, Licandro, Di Guardo, Canuti o il sottoscritto, con le loro lodevoli proposte e i loro suggerimenti, abbiamo sperimentato la sensazione di essere ascoltati?
L’ascolto, invero, ha bisogno del suo complemento che è la risposta.
E questa sera che dedichiamo a Fulvio Roiter, ricordandone la scomparsa, vuole essere, appunto, l’occasione per rispondere a tante domande che ho percepito nei passati incontri del martedì, ovvero il desiderio di conoscere i grandi della fotografia italiana, imparare da loro, verificando insieme, l’esperienza delle scelte tematiche, della crescita poetica; imparare un confronto su temi comuni; capire cos’è un libro fotografico, una sequenza, l’importanza storica di una immagine emblematica; penetrare nel mistero dell’immagine e trarne diletto.
La scorribanda della nostra Irene in quel di Venezia, mi aveva piacevolmente colpito perché a miei occhi si era rivelata l’applicata conferma di tante cose che appartengono alla sua sensibilità personale e di tante altre apprese nel nostro gruppo. Ma c’era qualcosa nella sua Venezia che balbettava a causa di tanto stupore, di tanta bellezza, di tanta magnificenza davanti ai suoi occhi come davanti al suo sentire; e chiedeva aiuto alla musica ed alla poesia. Probabilmente, e mi scuso con l’interessata per questa mia invadenza, le mancava semplicemente un confronto, un punto di riferimento.
E chi meglio di Roiter, del suo “Essere Venezia”, per confrontarci, stasera, con questo tema, ricorrente e amoroso, che puntualmente attrae il nostro sentimento durante i soggiorni in laguna?
Ma per capire Roiter bisogna capire cos’è la sua “venezianità”, il suo “essere fotografo”, la sua “disponibilità a penetrare il fotografico”, il suo senso del colore e della composizione, il suo narrare per immagini.
Il “mio Roiter” vuole proporre, allora, un modo di ascoltare il mondo, e quest’ascolto far diventare cultura.
Badate bene: sono immagini semplicissime, comunissime, stranote ed evidenti, mai complesse, mai complicate. Ma sono immagini sublimi, pensate da un fotografo colto perchè conosceva la materia che vedeva e si sorprendeva ancora di quanto lo strumento fotografico poteva fargli scoprire.
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