Dieci minuti per voi, molte esperienze per noi.
Rompe l’attesa della serata Giovanna Pappalardo che, supportata da Salvo Ragusa, intreccia un itinerario squisitamente londinese riprendendo un mondo che vive lungo i canali navigabili che scorrono dentro la città, canali da sempre utilizzati da battelli che, ormai, sono divenute case, parte integranti di quei quartieri, di quei giardini.
Il “british” tradizionale in queste osservazioni cede al momento di libertà, di autonomia, all’inizio dell’avventura, ad una domesticità diversa: la Regina e la Corte sono lontane, è lontana la guida a destra, è lontana la nebbia ed il gotico di Westminster.
Scoppiano, invece, i colori e, con loro, i profumi, gli odori, gli incontri. La riservatezza inglese si trasforma in voglia di vivere in libertà, di godere con buon senso, il poco sole che il buon dio loro concede. Londra, stavolta, è diversa, e comprendiamo perché l’umanità scespiriana ci appaia così variegata e, talvolta, divertente se non proprio comica.
I nostri amici sono arguti, attenti, perspicaci, come sempre, quasi a dirci che, anche in questo mondo, noi mediterranei, potremmo vivere bene. Penso, allora, alla c.d. Brexit e cerco il punto in cui trovare un accenno di distanza: ma nelle foto proiettate da Giovanna non lo trovo.
Eletta Massimino sale sulla scena: sono poche immagini e, ancor più poche, sono le parole; ma le ha bene selezionate e soppesate per trasmettere e comunicare cosa spera di trovare nel gesto fotografico e cosa cerca in un circolo di dilettanti della materia.
Quindi, propone una selezione come il curriculum di un trascorso immaginario che intuiamo alquanto interessante; quindi, l’idea che la fotografia sia, anche, un linguaggio e che, in essa, esperienze come le metafore, il simbolo, le iperboli, le similitudini, possano avere la loro cittadinanza; quindi un’esperienza della fotografia intesa non più come uno specchio ma come una finestra.
Che dire allora? Le premesse teoriche ci sono tutte e sono state confermate dalla prima tranche di immagini concentrata sui ritratti; la seconda puntava sul significante rapporto soggetto-oggetto della ripresa, caricato dai contenuti retorici di cui sopra.
Ci è piaciuto, però, il momento in cui l’immagine realizzata è divenuta quotidiana senza perdere il suo quoziente artistico ed intellettuale: si rivelava, così, il momento della condivisione impegnata col Neon, e quindi col teatro della diversità; si rivelava la creatività istintiva intercettata in un bambino che scopre la scena del mondo in una vecchia mattonella; si rivelava lo sberleffo a chi guarda assai (tanto per non prenderci troppo sul serio e provare a rimanere leggeri: insomma ci ha sedotti senza farsene accorgere).
Roberto Oriti si lascia suggestionare da un titolo di romanzo, di un film, di un luogo comune, ormai, alquanto datato, ma del medesimo, raccoglie solo l’assonante modernità.
Disturba quel titolo: anche perché all’allusione non fa seguito la rappresentazione.
Catania è sempre la puttana di sempre - come l’aveva definita Giuseppe Fava - che non "gode" dei suoi malesseri ma li nega, che vi piange sopra non sapendo distaccarsene.
Ma la fotografia di Roberto è buona: è la Sant’Agata di sempre, con l‘Etna, il barocco etc, . e l’originalità di approccio, la composizione, il punto di vista, quello di ripresa si rivelano meditati e meno istintivi di un tempo.
Roberto ha fotografato di giorno e di notte, al centro ed in periferia, lungo l’asse attrezzato e lungo la banchina del porto. Ha fotografato il dettaglio e l’insieme, l’atmosfera assordante ed il silenzio, i volti e gli sguardi.
Ma, allora, c’erano le sfumature? C’erano, ed erano anche tante: erano, purtroppo le sfumature della buona tradizione ACAF dalla quale ognuno di noi, doverosamente, deve emanciparsi, per poi tornare a ricostituirla più bella di prima. E Roberto è sulla buona strada (anche perché è disposto ad ascoltare più di altri).
Fresca dell’eccezionale riconoscimento FIAP meritatamente acquisito, la mia amica Marika Restivo aveva voglia di comunicarci di aver cambiato qualcosa nel suo modo di vivere la fotografia.
Premesso il suo legame viscerale col mondo dei concorsi, e quindi con il confronto e con il rapporto dialettico con la ricerca realizzata in ogni angolo del pianeta, ciò premesso, con la naturalezza e la semplicità, tipiche del suo “tenace concetto”, ci confidava che il tempo prezioso dei suoi giorni ormai era rivolto alla fotografia “creativa” .
La fotografia creativa è quella dove, a mio avviso contestabilissimo, scompare l’idea che il fotografo lavori nel tempo presente, o che sia sempre e realmente davanti a ciò su cui lavora, e che quello su cui lavora sia quella cosa determinata e non “una” cosa. L’aspetto tecnico - manuale, in molti casi, diventa preponderante, totalizzante.
Non ci stupisce la scelta della nostra amica, conoscendola dotata di una personalità sempre alla ricerca di novità e sperimentazioni. Le auguriamo di proseguire nei suoi lusinghieri confronti. Quello che ci ha fatto vedere ieri sera erano dei progetti ancora in nuce ma lei sa che le saremo vicini nella sfida come nella ricerca di un’immagine rivelatrice
Dall’eccellenza di Francesco Barbera non potevamo aspettarci di meglio. La festa di San Paolo, in quel di Palazzolo, è restituita, in poche minuti, in maniera esemplare ed esaustiva.
E’ un risultato al quale il “nostro” Francesco ci ha abituato da sempre e gli riconosciamo l’esemplare chiarezza del progetto fotografico, dell’approccio umano, della legittima curiosità, del sorriso complice, dal sano buon umore.
Il mondo delle feste e dei “festanti”, anche stavolta,è penetrato con adesione autentica e partecipata. Bellissima e congruente l’attenzione ai bambini.
Probabilmente sto scrivendo un’assoluta sciocchezza ma il breve intervento di Silvana Licciardello l’ho avvertito come una risposta, e come un contributo per quei momenti in cui, come ACAF, abbiamo provato a far crescere la “natura dell’immagine”.
Attingendo al copioso patrimonio fotografico dei suoi viaggi, la nostra fotografa ha selezionato, con spirito e intelligenza, gli “incontri” artistici realizzati: in rapida sequenza ha scandito la fotografia come “objet trouvè”, come sorpresa, come “ready made”, come “story telling”, come rivelazione, come “trompe d’oeil”, come installazione, come "performance", come deposito, pur sempre possibile, di un senso.
Sapevamo, amica cara, di tanta cultura: condividila, ti prego, con noi, anche poche gocce al giorno.
Ed abbiamo, anche, imparato, meditato, appreso; soprattutto sorriso.
Uno scambio di idee con Valerio Bispuri e nasce il desiderio di dare concretezza visiva all’esperienza di un incontro, diventato, poi, confidenza, convivio.
Emanuela Serra ci parla di una comunità di uomini, cittadini del Senegal, che necessità, forti ed urgenti, hanno spinto nella nostra terra, laddove, per rispettare la loro dignità e il loro tempo hanno dovuto adattarsi alle poche risorse disponibili intorno a loro.
La fotografa, con un linguaggio duro, sporco, a volte tagliente, sempre concreto, mai mistificante, raccoglie l’ambiente, la convivenza forzata ed accettata, sottolineando, però, la conservazione delle tradizioni culturali e la difesa di un'identità. Li raccoglie nel gesto della preghiera, nella confezione del cibo, nel desiderio di vivere un momento di riposo, e, nel momento del riposo, magari, ritrovare, risentire, il pensiero di un ricordo. L’uso di una focale corta fa pensare ad un minimo di rispettosa complicità ed accettazione dell’intrusione fotografica. Ci sono tante nostalgiche immagini alle pareti, altre fanno sognare per terra o fra le loro mani; poi, nella penultima, tra tanti volti di uomini neri, esplode il sorriso soddisfatto della nostra Serra, un cuore dello stesso colore.
Poi, Walter ci ha raccontato di un altro suo sogno: quando si sveglierà ci troverà pronti e disponibili.
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