Seminario ACAF – La lettura dell’immagine fotografica
Esistono domande elementari, non esistono risposte semplici.
Come volevasi dimostrare, il percorso dalla realtà al segno è stato se non semplice, quantomeno lineare, come di un qualcosa di codificato, digerito, maturato. Un percorso già spianato, basato su di “un’arte” che ci è in buona parte nota. Molto più irto di difficoltà il percorso inverso, per così dire, quello che ci dovrebbe riportare dal segno all’idea che il fotografo vuole comunicare. Era prevedibile, come dicevo, e non solo per l’appesantimento post-prandiale, ma perché intrinsecamente più complesso. Eppure necessario.
A volte una spinta serve a mettere in moto un motore, mentre ascoltavo (con piacere, come sempre) la forbita lezione di Pippo Pappalardo, le rotelle del mio cervello si agitavano per conto loro, alcune letture mi tornavano alla mente, ma per non complicare il discorso mi sono astenuto dal formulare tutti i miei dubbi. Dubbi non sull’esposizione del relatore, ma dubbi miei personali su problemi complessi di semiotica e “filosofia” della fotografia, forse in parte, se non del tutto inutili a chi intende solo scattare delle fotografie, ma necessari per chi si interroga a fondo su ciò che fa. Ricorderete forse un mio vecchio quesito: perché fotografiamo? Che poi si accompagna a: cos’è la fotografia? Quesiti gnoseologici forse futili di chi si vuol complicare l’esistenza. Forse, come suggerì una volta il nostro mentore, non essendo io un
fotografo cerco altrove i motivi della mia manchevolezza, o semplicemente cerco una scusa per mantenermi vicino ad un mondo che amo: quello della fotografia, appunto.
Vagando su internet, però, noto ondate di revisionismo sulla semiotica (cito per semplicità e comodità un blog ricco di spunti propostoci, come sempre, dall’infaticabile Pippo Pappalardo: Fotocrazia. Dove potrete trovare: “E’ finito l’assedio al segno fotografico”, come esempio). Ma anche su cose date per scontate come il lavoro di Cartier-Bresson (in “Chi ha paura di HCB”, stesso blog). E ancora sull’inconscio tecnologico (ancora lo stesso blog, per semplicità: “Non è solo uno strumento”). Argomentazioni sulle quali si può essere o meno d’accordo, ma che danno da pensare.
Il fatto è, mi si perdonerà se ci metto del mio, che quando scattiamo una fotografia il più delle volte ci mettiamo dentro (alla fotografia intendo) ciò che vogliamo e ciò che non vorremmo, ciò che vediamo e ciò che ci è sfuggito, ciò che è utile al nostro messaggio e ciò che non solo è inutile, ma talvolta fuorviante. Se riguardo i miei appunti di ieri una parola che torna che torna continuamente è: ambiguità. Quando noi eseguiamo un disegno o descriviamo a parole un oggetto o, peggio ancora, un concetto, scegliamo con cura i nostri elementi. Lo stesso non avviene, non può avvenire, quando scattiamo una fotografia, a meno che non eseguiamo una disposizione accurata degli elementi che andremo a fotografare (foto di studio) o eseguiamo una modifica a posteriori con un foto-ritocco (analogico o digitale che sia). Niente di male (anche se contestato da molti e proibito in taluni generi fotografici), ma non è la regola. Ma, dato questo presupposto, come fa chi legge a distinguere cosa il fotografo ha inserito volontariamente e cosa è finito li per caso o nonostante le intenzioni del fotografo? Come interpretare i risultati del cosiddetto inconscio tecnologico?
Detto questo resta ferma la lettura formale dell’immagine (che si accompagna anch’essa ad uno stuolo di critiche) e resta il messaggio che la stessa immagine si porta dietro, messaggio che però, come già detto, porta tutto il peso dell’ambiguità. ( e per semplificare mi rifaccio solo all’esempio presentato ieri del lato B che sembra un organo maschile, voluto, non voluto, che messaggio ci consegna?).
E’ un po’ come se per scrivervi tutto questo avessi avuto a mia disposizione solo le frasi trovate sul giornale di oggi, certo non sarei stato molto chiaro, no?
Resta il fatto che le immagini le vediamo e le leggiamo ogni giorno, ma come? Una stessa immagine a volte cambia completamente il suo senso (è successo più volte) a seconda del contesto. Però se invece di una presento due o più immagini probabilmente il senso del mio messaggio si va affinando, il lettore elimina gli elementi spuri presenti solo in una delle immagini e si concentra su quelli comuni a tutte. Oppure se aggiungo un elemento connotante, sia esso una didascalia o una musica o altro, allora il senso si fa ancora più chiaro.
Ma forse l’ambiguità dell’immagine fotografica è un suo punto peculiare imprescindibile e di questo non possiamo non tenere conto se questa è la pratica a cui ci rivolgiamo.
Chiarito un dubbio, se ne fa un altro. Vi ho confuso le idee? Io me le sono finalmente chiarite o così spero.
Un saluto a tutti.
Emanuele Canino
(nickname: Caristofane da Aristofane Candido, nomen omen?)