ACAF - Associazione Catanese Amatori Fotografia

Contest Portfolio

Mi sono chiesto a lungo, nella mia ignoranza, in cosa consistesse un portfolio e quali studi progettuali e concettuali si celassero dietro questa parola misteriosa. Bene ho scoperto che si tratta di una raccolta di poche immagini ruotanti attorno un argomento scelto (più o meno e semplificando!), ma non è questo il punto. Il punto è che per realizzare un portfolio ci vuole un progetto. Che può essere anche un progetto estemporaneo (realizzato al momento, come ha fatto qualcuno, ma ci vuol bravura anche a far questo io credo) o di un progetto a posteriori (mi accorgo che una serie di foto stanno bene insieme e le riunisco in un tutt’uno) o anche un progetto a lungo meditato, progettato e infine realizzato. Un progetto comunque, e già qui usciamo fuori dallo standard foto-amatoriale. Un progetto non è una bella foto, tecnicamente corretta, esteticamente accattivante, con una composizione azzeccata. Non è un bel paesaggio o un bel ritratto. Qui si parte da uno studio che va poi messo in atto. Riconoscere è certamente più facile che creare. Riorganizzare un lavoro già fatto è più facile che progettarlo ex novo. Così anche riconoscere una bella immagine in una foto già fatta è estremamente più facile che previsualizzare e costruire una bella immagine a partire dal mondo reale. Se come diceva Totò “è la somma che fa il totale”, la somma di più operazioni difficili non può dare altro che un progetto ancora più complesso. D’accordo non sempre è così, ci sono le scorciatoie, le furbate, ma queste poco interessano qui. Qui mi interessa solo dire che per realizzare un progetto (posso chiamarlo progetto anziché portfolio?) occorre metterci la testa, il cuore e l’occhio (chi vi ricorda?) ed è un ottimo esercizio per chi vuole crescere fotograficamente perché porta a chiederci cosa vogliamo dire e porlo in essere fotograficamente, e non è facile. Perché la fotografia ha un linguaggio polisemita, “è un messaggio senza codice” (Barthes, probabilmente oggi superato, ma rende l’idea), è comunque un linguaggio completamente diverso dalla parola (parlata o scritta). Se poi si tratta di organizzare un intero discorso (più parole = più fotografie) la questione si complica. Anche se talora si semplifica perché un’immagine guida e aiuta l’altra, ma bisogna far sì che questo avvenga e che le immagini non vadano ognuna per la sua strada. E veniamo ai discorsi: posso dire che “se c’è il sole il tempo è bello” (truismo lapalissino) o posso fare discorsi ben più complessi. Posso portare una raccolta di immagini sul mio ultimo viaggio o posso creare un progetto concettualmente elaborato ed esteticamente controverso come quello presentato da Licia Castoro (vincitrice di portfolio Mediterraneum 2011).
Anche la lettura di un portfolio, per quanto sopra detto, non è sempre facile. Ed è anche questo un buon esercizio (come leggere buoni libri è un buon esercizio per chi vuole imparare a scrivere). Io per primo devo riconoscere che a primo impatto il lavoro di Licia mi ha colpito, sì, su tutti gli altri esposti l’altra sera, ma in senso negativo. Cosa vorranno mai dire queste foto scialbe di una donna sciatta in un contesto strano e per certi versi dissonante da una foto all’altra? Cosa sarà mai quell’edificio di tavole bianche? Una cabina balneare? Poi … sono passato oltre. Ah, un bel bianco e nero di stampo reportagista come piace a me e quell’altro con immagini sognanti, diafane? Quindi sono tornato indietro: ma cosa avrà voluto dire Licia? Poi un titolo, poi un’introduzione, la sequenza assume una sua connotazione, ora mi è più chiaro, si ora li vedo i richiami a Fontana. Ma è così che deve essere un portfolio o una sequenza di immagini o una immagine? Deve dire tutto da sola (come sosteneva Bresson) o deve/può aver bisogno di un accompagnamento didascalico per esprimersi? Ed i sottotitoli possono stravolgere il senso di ciò che vedo? Perché in fotografia ciò che vedo non è ciò che vedo: “la fotografia di una pipa non è una pipa” ha detto tempo fa Salvo parafrasando Magritte, ma allo stesso tempo è una pipa, ma può non esserlo più con un adeguato titolo o può non esserlo stato in partenza (ciò che in fotografia mi sembra una pipa era in realtà un’altra cosa) o può essere una porzione per simboleggiare il tutto (metonimia) e così via. Il significato di una fotografia non è mai interamente fissato, la sua connotazione infatti dipende dal sapere di chi la legge (sempre Barthes). Se non so cosa è una pipa e non ne ho mai vista una guardando la foto di una pipa non saprò cosa sto guardando finché non ne avrò letto la descrizione o il titolo o la didascalia. E dunque, è evidente, sono stato ignorante nel valutare il lavoro di Licia. O è stata Licia ad essere criptica? Avrei potuto capire il senso del suo lavoro senza una didascalia? Be credo di essermi impantanato in un problema di semiotica fotografica più grande di me, forse Pippo Pappalardo qualche giorno vorrà erudirci …

PS (outing): sono arrivato in ACAF poco meno di un anno fa’ da fotoamatore autodidatta e concettualmente abbastanza ignorante. Conoscevo Cartier Bresson, Gardin, Scianna, Leone, Minnella e pochi altri. Avevo letto molto di tecnica, ma pochissimo di teoria, critica, semitica. In quest’ultimo periodo ho letto Barthes, Sontag, Marra, Bate, Branzaglia, Ronis. Ho conosciuto Branzi, Fontana, Giacomelli, Strand, Disneau, Atget, Erwitt, McCurry, Ghirri … e poi Cosimo, Salvo, Pippo, Lucia, Daniela, Rossella, Francesco, Maurizio, Alberto, Mary, Daniele … e tanti altri. Ci sarà spazio per crescere ancora e un merito all’ACAF va di certo riconosciuto.

Buona luce a tutti

Emanuele.

Ancora una volta, con passione sincera ed acuta perspicacia, l'intelligenza critica di Emanuele fa centro.

Il portfolio (è vero, il nome è strano e deriva dal contenitore di più immagini fotografiche) sta diventando la proposta fotografica più diffusa. In Italia; addirittura, siamo più avanti come numero di autori e di manifestazioni rispetto agli stati europei ma, ugualmente, nonostante gli sforzi teorici di descriverlo pienamente, siamo lontani da una chiara definizione (rimando alla rubrica Contest di questo sito per qualche suggerimento).

Invero, tale difficoltà sta nella natura polifemica della fotografia, come Emanuele stesso riferisce, e nella estrema soggettività della proposta che, non esaurendosi in una sola fotografia ma in un "insieme", ci coinvolge e ci costringe a metterci in mostra, in prima persona, con tutte le complicazioni (belle e brutte) del caso.

Emanuele, però, ha individuato, immediatamente e chiaramente, il bandolo della matassa indicando la parola magica dalla quale bisogna procedere: "PROGETTO".
Il portfolio ha bisogno proprio di questo; di essere, quindi, pensato, voluto, concepito, nutrito, curato, potato, abbandonato e , poi, ripreso, confrontato, amato e custodito (e magari difeso).

Gli insegnanti di fotografia, un tempo, si definivano docenti di tecnica fotografica e di estetica fotografica; ora, si nominano titolari della cattedra di "Progettazione fotografica", laddove, se sono buoni insegnanti, ci sta quel "pensare per immagini" perseguito con furore da Luigi Ghirri ma, da secoli, desiderato e teorizzato da altri prima di lui (ricordiamoci dell'alfabeto cinese).

Occorre pensare, allora, per immagini e progettare; e poi metterle assieme e proporre; e, quindi, rendere comprensibile con un linguaggio nuovo la nostra e personale proposta.
Penso sempre all'Infinito di Leopardi: il Poeta muove da memorie, emozioni, suggestioni, riflessioni che , poi, trasferisce in immagini per renderle visiibili, percepibili, "commestibili"; e, poi, spiega le ragioni di quest'esperienza e, quindi, la offre in cerca di condivisione.

Progettare con un linguaggio nuovo, dove l'insieme d'immagini e parole, ed altro ancora, possa supplire al vuoto dei segni del contemporaneo che, da tempo, scadono nella moda, nel conformismo, nella ripetizione, nella viltà.

Concordo con Emanuele che solo lo studio e soprattutto il confronto potrà dirci se tanto impegno è ben finalizzato. Io, per intanto, ci continuo a lavorare su. Insieme a voi.

Wow, arrossisco!