“Light Painting,” ovvero disegnare con la luce. Una definizione che accordiamo alla capacità tecnica di “dipingere” il mondo davanti ai nostri occhi tramite una sorgente luminosa che amministriamo con sufficiente maestria (faretto, spot, lampada tascabile, luce dell’ingranditore). Il sensore del nostro strumento, o la pellicola, opportunamente tarati, o la carta sensibilizzata, riceveranno e tratterranno, poi, sia il riflesso della nostra illuminazione sia il dinamismo dell’operazione.
È una esperienza che abbiamo vissuto già prima dell’invenzione della fotografia ravvisandola, in natura, nel gioco delle ombre, nell’impronte sulle pareti di casa ogni qualvolta rimuoviamo un quadro, nelle eclissi, nelle sagome degli oggetti e, quindi, nelle loro silhouette.
Quindi, una pura e semplice illuminazione; e il successivo “riconoscimento” di quanto abbiamo voluto illuminare e, illuminandolo, portare all’attenzione, disegnandolo nei suoi contorni, esaltandolo nei suoi volumi, ricomporlo nei suoi colori e nelle sue sfumature.
Può soccorrerci qualche ricordo: vi è mai capitato di penetrare dentro una cavità non illuminata? di accendere una sorgente luminosa sotto le coperte? di guardare il volto della vostra compagna al primo chiarore dell’alba come alla luce dello specchietto retrovisore?
Se vi è capitato, allora, potete capire le sensazioni del nostro preistorico antenato nel momento in cui riuscì a diradare le tenebre alla luce, non di un lampo, non della luna, ma di quel fuoco che egli stesso aveva provocato, difeso, alimentato.
Alla luce di quel fuoco (ecco il mito di Prometeo) aveva visto che le cose del giorno erano “uguali e diverse” da quelle della notte: quindi la medesima realtà, se illuminata, offriva altre espressioni, suscitava altre emozioni; si rivelava più ricca. E non ne aveva paura.
Ma se quel fuoco, il nostro antenato, alimentava o attenuava in qualche misura, l’immagine allora diveniva latente, sfuggente, non catturabile, e non c’era alcun tasto “Memorizzazione” a risolvere tutto.
Ed accadeva, pure, qualcosa di grandioso a livello di tecnica della percezione: la diversa informazione, introitata attraverso l’illuminazione, rivelava l’esperienza concettuale proprio dell’immagine ovvero la differenza tra l’esistenza di un oggetto e la sua raffigurazione mimetica. E così per qualche millennio l’immagine svolse un ruolo più importante della parola: ma questa è una storia che studieremo più avanti.
Stasera i nostri tutor ci porteranno dentro la caverna di Ali Babà laddove sono nascosti tesori che non si svelerebbero senza le nostre luci: insieme a loro, li trarremo dal loro mondo e li porremo in altri scrigni per meglio condividerli e “curarli” come dice Franco Battiato.
Godiamoci l’esercitazione, e impadroniamoci del suo significato culturale, ringraziando gli organizzatori per avercela proposta.
Qui, ricordiamo, che le stesse operazioni che andiamo conducendo, le sta realizzando il grandissimo fotografo Nino Migliori (ospite e Premio MedPhoto 2013).
Pensate: ha cominciato con le sculture medievali del Duomo di Modena e con quelle del Battistero di Parma, ed adesso continua con la scultura di donna più bella di sempre, ovvero, a Lucca, Ilaria del Carretto di Jacopo della Quercia. Pretende solo un po’ di buio, e la lampadina la trae dal proprio taschino.
Ma, se vi ricordate, abbiamo visto all’opera anche Mimmo Jodice, sui reperti del Museo Archeologico di Napoli.
E se un giorno, ormai esperti di Light Painting, volessimo rivisitare tutta la scultura dei nostri edifici come delle nostre fontane (mi basterebbe anche una semplice Candelora agatina)? Per rivedere ciò che vogliamo non basterebbe una vita.
Per adesso accontentiamoci del volto dei nostri amici, e delle cose che hanno portato.
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